La vicenda di Giovanni Licata

Quando morì, il 4 aprile 1886, massacrato a Gildessa, Giovanni Battista Licata aveva solo trent’anni. Appassionato di scienze naturali ed apprezzato pubblicista, era stato colto dal “mal d’Africa” in occasione di una sua permanenza di sei mesi ad Assab. Da allora non vedeva l’ora di tornare in quel continente nero che sarebbe stato il teatro della sua drammatica fine. Fu dunque con entusiasmo che aderì alla spedizione Porro, nell’ambito della quale si sarebbe occupato degli amati studi naturalistici e della cronaca del viaggio grazie all’incarico della corrispondenza per il Corriere del mattino, di cui era redattore.
L’atmosfera in cui s’inquadra la vicenda di Giovanni Licata è quella che ruota attorno alla nascita e all’attività delle società geografiche italiane (notizie più dettagliate al riguardo in «La prima guerra d’Africa» di Roberto Battaglia, Einaudi 1958).


Le società geografiche


La politica coloniale italiana mosse il primo passo nel 1882, quando il governo Lanza acquistò dalla società Rubattino & C. la baia di Assab e una superficie circostante di circa centomila metri quadrati, situata nel Mar Rosso.

Questioni politiche prioritarie sul piano interno e internazionale (i rapporti con la Germania di Guglielmo I, con la Francia di Napoleone III, il nascente conflitto tra Stato e Chiesa) non lasciarono spazio, in un primo tempo, ad uno sviluppo effettivo della prospettiva africana.

Furono le neonate società geografiche a riempire il vuoto e a condurre la discussione sulla futura presenza italiana in Africa.

Per prima sorse a Firenze nel 1867   la "Società Geografica Italiana", con scopi scientifici ed economici. Ma non ebbe lunga durata: una sorta di isolamento regionalistico in cui volle rinchiudersi le impedì di partecipare al dibattito su scala nazionale.  

Da una costola del giornale "L'Esploratore" nacque nel 1879 a Milano la "Società di Esplorazioni Commerciali in Africa": Assai più dinamica della precedente e diretta da Manfredo Camperio, ebbe il merito di rilanciare l'attenzione sulle questioni dell'esplorazione italiana, tra cui Assab, Massaua e la Tripolitania.

Terza, ma non ultima quanto ad attivismo, nel 1882 vide la luce a Napoli la "Società africana d'Italia".

Sebbene fosse priva di fondi consistenti e di ampia diffusione, svolse un ruolo attivo e incalzante, presentando determinate rivendicazioni su Assab e inviando delegazioni a Roma per richieste di vario genere. Appoggiata dagli imprenditori e commercianti partenopei, decisa a coinvolgere il più possibile il governo italiano nella discussione coloniale, la Società si avvaleva della partecipazione attiva del giovane studioso e pubblicista Giovanni Licata.




La Baia di Assab in una foto d’epoca

   
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Raffaele Rubattino

Questi era il direttore - in realtà l’effettivo padrone - della più importante società di navigazione italiana. Un tipo d’uomo non proprio capace di interessarsi di qualche cosa senza scorgervi un proprio preciso interesse, cui però, d’altro canto, va riconosciuto il merito di essere stato l’imprenditore più audace della nostra borghesia risorgimentale: non c’è impresa rivoluzionaria, favorita oppure no dalla fortuna, che non sia passata sulla coperta delle sue navi: Sapri, i Mille, l’Aspromonte. Un uomo che si era lasciato «rubare» con buona grazia le sue navi da Garibaldi e da Pisacane, indubbiamente per spirito patriottico, ma anche perché convinto che, in un modo o nell’altro, avrebbe ottenuto un adeguato risarcimento dei danni subiti in imprese così arrischiate. Fu infatti Cavour in persona ad adoperarsi perché i borbonici gli restituissero il Cagliari servito a Pisacane e, dopo Marsala, fu Nino Bixio a deliberare il pagamento del noleggio del Piemonte e del Lombardo.